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Calcio e Olocausto: Géza Kertész, “lo Schindler del calcio”

Se nel “Giorno della Memoria”, che viene celebrato ogni 27 gennaio in ricordo delle vittime della Shoah, si scorrono le pagine dei quotidiani sportivi e dei siti di riferimento, sono diversi i nomi dei personaggi legati al calcio che finirono vittima della follia nazista e che chi è interessato alla storia può scorrere.

Ebrei come Árpád Weisz, l’allenatore del primo grande Bologna e scopritore all’Inter di Giuseppe Meazza, il talentuoso Leon Sperling, il primo idolo dell’Ajax Eddy Hamel, il portentoso pioniere del calcio americano József Braun ed il bomber tedesco Julius Hirsch, che per la Germania aveva addirittura combattuto durante il primo conflitto mondiale.

Allargando il discorso ecco che si possono raccontare le storie di chi, non ebreo, si oppose comunque al nazismo e ne finì vittima: Matthias Sindelar, Milutin Ivković, Carlo Castellani e Vittorio Staccione. Un nome che invece è stato a lungo dimenticato è quello di Géza Kertész, recentemente soprannominato “lo Schindler del Catania”.

Prima di tutto è doveroso precisare che questo soprannome gli è stato dato da chi ne ha riscoperto la storia che sembrava sepolta: Antonio Buemi, Carlo Fontanelli, Roberto Quartarone, Alessandro Russo, Filippo Solarino sono gli autori di “Tutto il Catania minuto per minuto”, uno splendido volume enciclopedico uscito nel 2011 e che raccoglie, anno per anno e con una completezza statistica impressionante, tutta la storia della società etnea.

Nello stesso anno si costituisce anche il “Comitato Géza Kertész”, che mira a riscoprire questo importante allenatore, uno dei tanti maestri danubiani che popolarono il calcio italiano negli anni ’30 e ’40, deciso a tributargli una via per le strade della città. Ma perché? Chi fu Géza Kertész? E cosa fece di così straordinario?

Chi fu Géza Kertész?

Nato verso la fine di novembre del 1894 a Budapest, il giovane Géza si appassiona fin da ragazzino al Labdarúgás, il football, lo sport nato poco meno di mezzo secolo prima in Inghilterra e che da Albione è stato man mano esportato in tutta Europa: fa il suo esordio nel 1911, giovanissimo, vestendo la maglia del decadente ma glorioso (vinse le prime due edizioni del campionato ungherese nel 1901 e nel 1902) Budapesti Torna Club.

Tanto lento in campo da meritarsi il soprannome di lajhár (bradipo), sopperisce a questo limite con una buonissima tecnica e una grande intelligenza tattica, doti che gli permettono di arrivare fino alla maglia della Nazionale, seppure soltanto per un’amichevole giocata nel 1914 a Vienna contro l’Austria.

Pochi mesi dopo scoppia la Grande Guerra, dove si distingue al punto da scalare i ranghi fino ad arrivare al grado di ufficiale, e concluso indenne il conflitto ricomincia a giocare, arrivando a vestire anche la maglia delle “Aquile Verdi” del Ferencváros.

Oggi si direbbe, e forse lo si poteva dire già allora, che fosse un allenatore in campo, vista la visione di gioco e la capacità di leggere l’andamento della partita, e in effetti è proprio come allenatore-giocatore che nel 1924 giunge in Italia.

La prima tappa è La Spezia, dove di fatto conclude la carriera sul campo, quindi insegna calcio alla Carrarese (promozione dalla Terza alla Seconda Divisione), al Viareggio, alla Salernitana. Qui conduce i campani alla finale valida per la promozione in Serie B mostrando – tra i primi in Italia – un’idea di calcio completamente innovativa e che anticipa i tempi.

Proprio negli anni in cui Vittorio Pozzo modella l’Italia sul “Metodo”, che porterà agli azzurri due titoli Mondiali grazie a un gioco fisico e attendista, infatti, Kertész plasma le sue squadre sul celebre “Sistema” di matrice inglese.

Un modello di gioco senz’altro più rischioso e spregiudicato, ma che è in linea con il carattere di questo visionario del pallone, che per primo nel nostro Paese introdurrà i ritiri finalizzati a formare un forte spirito di squadra e a isolare i giocatori da pericolose distrazioni.

Un uomo dalle mille sfumature

Ama la disciplina, Kertész, in effetti un apparente controsenso agli occhi di chi è abituato a vedere il mondo in bianco e nero. Il suo rispetto per le regole, la ferrea determinazione e il fervido nazionalismo si combinano infatti ad un umorismo sottile, allo sguardo gioviale, a gusti raffinati: suona il pianoforte, ama la filosofia, soprattutto è bravo nel farsi volere bene.

Lo provano le scene avvenute nel 1933 alla stazione di Santa Eufemia Lamezia, quando centinaia di persone seguono il treno che porta lontano da Catanzaro questo personaggio istrionico, alto e dinoccolato, partito verso il grande calcio carico di doni offerti da cittadini certo non benestanti, ma con i cuori colmi di amore per quell’eroe che promette che un giorno ritornerà.

Arriva poi a Catania, Géza, a scrivere le prime importantissime pagine di quella che è una delle realtà più importanti della storia del calcio meridionale. Sorta da qualche anno, la “Società Sportiva Catania” aveva sempre vivacchiato nei bassifondi delle divisioni minori, ma con l’avvento del mago ungherese la storia cambia significativamente.

Grazie al forte legame con il presidente Vespasiano Trigona di Misterbianco, che lo ha fortemente voluto alla guida della squadra, Kertész riesce a insegnare il suo calcio al meglio e a portare al suo primo anno la squadra nel 1934 a quella Serie B mai raggiunta prima, per poi addirittura sfiorare la promozione in massima serie l’anno successivo grazie anche alla sapiente valorizzazione di un talento allora sconosciuto e che poi esploderà ai massimi livelli nel Bologna, Amedeo Biavati.

Con l’addio del presidente, tre anni dopo il suo arrivo, anche l’allenatore lascia la Sicilia, spostandosi al Taranto e ottenendo l’ennesima promozione in B, la quarta in carriera, che finalmente gli vale le prime attenzioni da parte del grande calcio metropolitano.

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La doppia avventura a Roma

Sbarca a Roma per allenare la Lazio, ma dopo una splendida stagione d’esordio non riesce a confermarsi, pur distinguendosi per preparazione e cultura del lavoro applicata a uno sport che per molti versi è ancora quasi dilettantistico. In capo a pochi anni, dopo una breve esperienza con l’Atalanta e due altrettanto fugaci ritorni a Salerno e Catania, ecco una nuova occasione per lasciare il segno.

Dopo una rapida esperienza al Littorio in Serie C arriva ancora una volta la chiamata da parte della Serie A, nientemeno che dalla Roma Campione d’Italia in carica che ha appena esonerato il connazionale Schaffer: ancora una volta però le ferme convinzioni tattiche e umane di Kertész si scontrano con una realtà diversa, quella di una squadra che ama giocare in modo attendista, che mal sopporta il suo desiderio di un calcio offensivo e ancor meno apprezza i ritiri e la disciplina.

Dura poco, il magiaro, anche perché mentre Roma diventa, giorno dopo giorno, sempre più bersaglio dei bombardamenti alleati, il pensiero corre alla sempre amata patria, che ha lasciato quasi vent’anni prima e dove sente doveroso tornare. È così che nel 1943, con il secondo conflitto bellico che si avvia a sparare i suoi ultimi e più devastanti colpi, Géza Kertész lascia l’Italia. Promette di tornare, ed è uomo di parola. Ma come vedremo il destino gli impedirà di mantenere fede alla sua promessa.

Eroe nel ghetto

A Budapest trova una situazione tragica: il governo collaborazionista aiuta i tedeschi nella caccia ai cittadini di origine ebrea, che vengono catturati e poi spediti in un viaggio senza ritorno verso i campi di sterminio.

Kertész guida l’Újpest, squadra che finisce per scontrarsi spesso con il Ferencváros guidato in panchina da una sua vecchia conoscenza, il fenomenale attaccante István Tóth: quasi coetanei, erano stati colleghi in campo e nell’avventura sulle panchine italiane, si conoscono e si stimano.

Più diversi non potrebbero essere: l’uno alto e dinoccolato, discreto giocatore e ottimo tecnico, il secondo invece basso, tarchiato, un passato da grande bomber, che gli ha dischiuso più rapidamente le porte di grandi squadre una volta intrapreso il percorso di allenatore. Tóth aveva guidato l’Inter, la Triestina, persino la Nazionale seppur per un pugno di partite.

Fuori dal campo stringono ogni giorno che passa una sempre più solida amicizia, mentre l’orrore imperversa in città: è così che a Kertész, che ama il gioco rischioso – ricordate il Sistema? – viene una rischiosa quanto grande idea: ribellarsi alla follia nazista, fare quello che un uomo giusto è chiamato a fare di fronte alla morte e allo sterminio.

Approfittando di una perfetta conoscenza della lingua tedesca, appresa durante gli anni nell’Impero Asburgico, finisce per travestirsi da soldato della Wermacht, facendosi affidare decine di prigionieri ebrei e membri della Resistenza. Li salva così dai campi di concentramento, spedendoli invece in luoghi sicuri quali chiese, case di amici fidati. Arriva persino a nasconderne alcuni in casa propria.

Una sfida impossibile

Un gioco rischioso, che non può durare a lungo e che si conclude tragicamente nel dicembre del 1944. I soldati della Gestapo lo raggiungono in un bar, dove con ogni probabilità sta parlando di calcio con gli amici, lo portano via e lo torturano: vogliono i nomi di altri collaboratori, vogliono scoprire quanto più possibile sui suoi contatti con la Resistenza e con gli americani.

Né lui né l’amico Tóth, anch’esso finito mano ai nazisti, dicono una sola parola: quando i soldati tedeschi si rendono conto che questi uomini tutti di un pezzo, veri patrioti ungheresi, non parleranno, ecco che li trascinano insieme ad altri cinque commilitoni nel cortile del Palazzo Reale di Buda. Ed è lì, sotto i colpi del plotone di esecuzione, che la vita di Géza Kertész si conclude.

Sette giorni dopo la città in rovina viene liberata dall’Armata Rossa, con i nazisti e i loro collaboratori che scappano lasciando dietro di se decine di migliaia di cadaveri: tra questi la figlia riconosce papà Géza, che al termine del conflitto sarà tumulato nel Cimitero degli Eroi sotto gli occhi di migliaia di persone, tra cui anche alcuni tifosi italiani.

Essi non dimenticheranno mai la figura di Kertész, nonostante il tentativo di seppellirne il ricordo da parte del governo comunista che si metterà alla guida dell’Ungheria in capo a un anno: è una figura scomoda, del resto, un nazionalista che davanti all’orrore scelse di fare quel che riteneva giusto e la cui figura non può trovare posto in un regime che idealizza all’estremo i valori di chi è amico, denigrando invece chi politicamente ha idee differenti.

Una storia riscoperta

Deve cadere il muro di Berlino perché molte storie come la sua tornino alla luce, trovando finalmente il posto che meritano nella memoria.

Géza Kertész fu “uomo in questo mondo inumano”, come lo ricorda la nipote Sandra residente oggi in Italia. Fu un buon giocatore, un eccellente stratega, fu un uomo vero capace di pensare con la propria testa in un tempo in cui molti non riuscivano, o rifiutavano, di farlo.

Amava il suo Paese ma anche l’Italia, era stimato dagli uomini del regime fascista ma non per questo si nascose, lottando anzi fino all’ultimo secondo, anteponendo la salvezza di chi riteneva ingiustamente perseguitato alla sua stessa vita.

Da anni il comitato sorto in suo onore lo ricorda e combatte affinché Catania gli intitoli una via: sarebbe davvero il minimo nei confronti dell’allenatore della prima storica promozione in Serie B, l’uomo che fu “lo Schindler del Catania” e sulla cui tomba, ancora oggi, può capitare di trovare qualcosa di rosso e di azzurro, i colori di un popolo calcistico che mai lo ha dimenticato. E mai lo dimenticherà.


Desidero ringraziare il “Comitato Pro Géza Kertész” e nello specifico il lettore Filippo Fabio Solarino che mi ha raccontato una storia che non conoscevo, e che meritava davvero di essere narrata, aiutandomi anche nell’editing.

Continuate a raccontarmi e segnalarmi storie che per voi meritano di finire su “L’uomo nel pallone”, sarò felice di ascoltarvi.


BIBLIOGRAFIA:

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