“A qualcuno questa partita potrà forse apparire come una breve pausa di umanità in mezzo ad un orrore infinito. Ai miei occhi, invece, come a quelli dei testimoni di questi partita, questo momento di normalità è il vero orrore del campo.
Poiché possiamo, forse, pensare che i massacri siano finiti – anche se qua e là si ripetono, non troppo lontano da noi. Ma quella partita non è mai finita, è come se durasse ancora.
Ininterrottamente.”
(Giorgio Agamben in commento ad un episodio narrato da Primo Levi ne “I Sommersi e i Salvati”, in cui si fa menzione di una partita di calcio svoltasi all’interno di un capo di sterminio durante una pausa di lavoro, in cui si affrontarono i militanti delle SS e i membri delle unità speciali “Sonderkommando”, reclutati nelle file dei deportati)
Europa, primi del ‘900. Il football è passato dall’essere lo sport di una privilegiata élite di studenti inglesi a un fenomeno sociale in costante crescita, esploso prima nel Regno Unito e poi nel resto del continente.
Approdato in Italia grazie all’apporto dei marinai inglesi delle navi mercantili, che spesso si dilettavano nel gioco del pallone attirando gli sguardi curiosi degli spettatori locali, il calcio ha visto andare in scena il primo campionato e si è diffuso allo stesso tempo in Francia, in Svizzera e poi nell’Europa dell’Est.
In Germania è introdotto da un insegnante di lingua inglese, Konrad Koch, desideroso di cancellare i numerosi pregiudizi razziali che i suoi connazionali nutrono nei confronti dei britannici; in Russia ha dovuto superare la diffidenza del partito, che non lo giudicava uno sport sufficientemente comunista.
Il pallone ha già smesso di rotolare a metà degli anni ’10, quando è esplosa la Grande Guerra: tra il 1914 e il 1918 quasi 10 milioni di soldati sono caduti nelle trincee, e tra essi anche numerosi calciatori, quegli eroi degli stadi che per primi seppero conquistare la folla calciando un pallone. L’Inghilterra ne ha addirittura mandati interi battaglioni, il “Football’s Battalion” e il “Battaglione McCrae” i più famosi, la cui quasi totalità è caduta sul fronte occidentale.
Una lezione non sufficiente
A guerra conclusa è sembrato che tutti avessero imparato la lezione. Ma in capo a pochi anni il mondo precipita ancora una volta nel baratro: è il momento del fascismo, del nazismo, delle leggi razziali. Di uomini che mandano a morire altri uomini, non importa se vicini di casa, negozianti, amici, o idoli sportivi.
La storia ricorderà questo lungo momento di follia con un nome tristemente adeguato all’orrore: “Olocausto”. Il momento in cui i calciatori finiscono per sfidarsi sui campi di battaglia, in cui addirittura compagni di un tempo possono ritrovarsi su fronti opposti. Come accade in tutte le guerre, purtroppo. Ma con l’aggiunta del folle desiderio di sterminare interamente un intero popolo.
28 maggio 1922: la Polonia ha scoperto il calcio da appena una ventina d’anni grazie a una pittoresca partita che ha coinvolto i membri della troupe che organizza la tournée di Buffalo Bill. Soltanto l’anno precedente hanno fatto la loro comparsa il primo Campionato e la Nazionale. Al loro terzo impegno, a Stoccolma contro la Svezia, i polacchi escono per la prima volta dal campo come vincitori.
2-1, ecco com’è finita quella storica partita: la prima rete, la prima in assoluto nella storia della Polonia, l’ha segnata con un preciso calcio di rigore Józef Klotz. Questo arcigno difensore, figlio di un calzolaio ebreo, si è distinto nelle file del Jutrzenka Cracovia e poi in quelle del Maccabi Varsavia, due squadre che rappresentano le minoranze ebree ben presenti nel Paese.
Orrore a Varsavia
Giocatore corpulento, tenace, combattivo, restio ad arrendersi, dovrà far mostra del suo coraggio in un giorno imprecisato del 1941, quando finirà vittima dei nazisti dopo essere stato rinchiuso a lungo – come molti altri concittadini – nel ghetto di Varsavia.
Colpevole di essere ebreo, così come Stefan Fryc, che con Klotz aveva condiviso ruolo e maglia della Nazionale (e con cui purtroppo condivise anche la fine), fu ucciso nel medesimo ghetto dopo un tentativo di rivolta.
400 chilometri più a sud, nello stesso anno, è morto Leon Sperling. Aveva vestito la maglia della Polonia nella sua prima gara e, da lì, aveva disputato 16 gare, un numero notevole per tempi in cui gli impegni internazionali erano rarissimi.
Dotato di un dribbling eccezionale, veniva per questo picchiato duramente dai difensori incapaci di fermarlo. Invece di reagire lui si limitava a dribblare e dribblare ancora, umiliando i prepotenti ed esaltando le folle, che lo ritenevano un vero e proprio mago.
Coetaneo e amico di Klotz, anche lui aveva militato a lungo nel Jutrzenka Cracovia, cogliendo numerose vittorie e raccogliendo gli applausi del pubblico. Dopo il ritiro divenne un impiegato di banca, ma il richiamo del pallone era troppo forte, e fu così che si spostò a Leopoli (Lwów), dove finì rinchiuso nel ghetto creato dai nazisti che occuparono il Paese. Fu proprio un soldato nazista, una notte intorno a Natale, a ucciderlo.
Ubriaco, lo fece per divertimento, perché semplicemente ne aveva l’arbitrio. Così scomparve uno dei più grandi campioni dell’epoca, per il capriccio di un ubriaco, quando pochi mesi prima e nello stesso ghetto era morto, colpevole di fare resistenza, il partner di Sperling nella Polonia, l’ala sinistra Marian Spojda.
Nessuna pietà per gli eroi
Dopo la Polonia, anche altre nazioni conobbero la follia del Nazismo: tra queste l’Olanda, dove, nei primi anni del football, si era distinto Eddy Hamel; ala destra rapidissima e tecnicamente dotata al punto da essere considerato il primo idolo dell’Ajax di Amsterdam, un club di origine ebraica sorto in una città che all’epoca dell’Olocausto aveva tra i suoi abitanti quasi 150,000 ebrei.
Abilissimo nel fuggire alle più ferree marcature avversarie, non fu capace di fuggire ai Nazisti che invasero il Paese; lo catturarono mentre allenava l’Almaria Victrix, deportandolo poi ad Auschwitz dove morì nelle famigerate “docce”, le camere a gas dove venivano eliminati i malati: aveva un ascesso, una scusa più che sufficiente per eliminarlo in fretta e furia. Nato negli Stati Uniti, a New York, era tornato con la famiglia in Olanda e non poteva immaginare quale sarebbe stato il suo terribile destino.
Calcio e memoria: la storia dimenticata di Arpad Weisz
Sempre in Olanda, a Dordrecht, si era rifugiato Árpád Weisz, che da calciatore aveva concluso la carriera in Italia vestendo le maglie di Padova e Inter; sempre nel nostro Paese era diventato allenatore di grande successo. Fu lui a scoprire e lanciare Giuseppe Meazza, il più grande campione del nostro calcio, quando questi era poco più di un “balilla”, e fu lui l’artefice del Bologna “che tremare il mondo fa”, capace di sconfiggere anche i maestri inglesi del Chelsea nel Torneo dell’Expo di Parigi del 1937.
Precursore dell’organizzazione tattica e della preparazione fisica, dalla panchina vinse tre Scudetti dovendo poi lasciare l’Italia per via delle famigerate “leggi razziali” emanate da Mussolini. Finì in Olanda, a insegnare calcio in un modesto club, prima che i nazisti lo prendessero con moglie e figli deportandolo ad Auschwitz: sopravvisse ai suoi cari – immediatamente finiti alle “docce” – per più di un anno, prima di morire di fame e di freddo nel gennaio del 1944.
Al suo ingrato Paese adottivo lasciò un libro, “Il giuoco del calcio”, che a lungo fu la bibbia di chi intese seguirne le orme. Quando Weisz fuggì aveva appena 42 anni, possiamo soltanto immaginare quanto ancora avrebbe potuto dare allo sport che amava tanto.
Il professor Jaffe, l’anima del Casale
Un altro pioniere fondamentale del calcio italiano scomparso nell’orrore di Auschwitz fu Raffaele Jaffe: professore di chimica e scienze, si era lasciato convincere ad assistere a una partita dagli studenti dell’istituto presso il quale insegnava, e l’entusiasmo era stato tale da indurlo a fondare una squadra di calcio.
Nasceva così, nel 1909 e durante una riunione scolastica, il Casale che appena cinque anni dopo avrebbe spezzato l’egemonia dei rivali della Pro Vercelli conquistando un clamoroso quanto storico Scudetto prima di conoscere un rapido declino dovuto alla folle velocità con cui il calcio passava dal dilettantismo al professionismo.
Persona estremamente colta e benvoluta, da ebreo quale era si sarebbe convertito al cattolicesimo per amore e quindi anche fatto battezzare, diventando a tutti gli effetti un cittadino italiano pur dopo la promulgazione delle “leggi razziali”.
Ciò non lo salvò dalla morte, soltanto rimandata per questioni burocratiche ma infine voluta dalla Germania nazista. Fu deportato ad Auschwitz, dove morì nelle camere a gas lo stesso giorno in cui arrivò: aveva 67 anni, e nella logica del lager non era altro che un peso inutile di cui disfarsi.
Anima partigiana
Non tutti in Italia accettarono passivamente il fascismo. Vittorio Staccione, ad esempio, era un operaio della FIAT quarantenne quando fu arrestato dall’OVRA – la polizia segreta di Benito Mussolini – e quindi deportato a Mauthausen. Qui riuscì a sopravvivere un anno prima di arrendersi alla cancrena e alla setticemia, nate da una ferita alla gamba mai curata e causata sadicamente dai suoi carcerieri.
In gioventù era stato un mediano di spinta, di cuore, e si era distinto sia nel Torino che nei primi anni di esistenza della Fiorentina. Il suo carattere fiero e orgogliosamente antifascista gli fu fatale, così come fu fatale a Carlo Castellani, straordinario talento dell’Empoli, dov’era riverito come un vero eroe.
Il padre David si era inimicato alcuni gerarchi del regime dichiarandosi un socialista convinto e a causa di una fiorente attività che generava invidia, e quando i carabinieri andarono a prelevarlo nei rastrellamenti seguiti a uno sciopero generale trovarono appunto Carlo, che si offrì di prenderne il posto per dei non meglio specificati chiarimenti sulla sua posizione durante gli scioperi contro il Duce.
Fu invece caricato su un treno con destinazione Mauthausen, dove morì dopo cinque mesi di atroci sofferenze causate dalla dissenteria e dalle terribili condizioni in cui i detenuti vivevano nel lager austriaco famoso per i suoi 186 gradini della morte: aveva appena 35 anni.
Orrore indescrivibile
Icilio Zuliani era stato per due anni il centravanti della Fiumana che aveva partecipato alla Divisione Nazionale, la massima serie dei tempi, retrocedendo e giocando la stagione successiva in seconda serie sempre con risultati mediocri. Eppure, in appena 32 partite, era stato capace di segnare 11 reti, mostrando un talento che però rimase inespresso a causa di un precoce ritiro giunto quand’era poco più che ventenne.
Antifascista convinto, fu catturato per le sue idee e deportato nel terribile campo di concentramento di Buchenwald, dove i nazisti a guardia dei prigionieri realizzavano trofei con i corpi degli stessi internati e dove l’orrore e la fatica avevano raggiunto vette inumane. Appena quarantenne e giunto in buone condizioni fisiche, scomparve pochi giorni prima che il campo venisse liberato per via di uno dei tanti atroci modi che i soldati delle SS utilizzavano per disfarsi di prigionieri, che vedevano come animali e trattavano come tali.
Il triste destino di Julius Hirsch
Il pallone smise di rotolare anche per alcuni eroi della Germania, la patria di quel Nazismo che rinnegò chi, ebreo, aveva persino combattuto per lei. Fu il caso di Julius Hirsch, che aveva combattuto nella Grande Guerra – dove aveva perso il fratello Leopold – e che nei campi da calcio aveva rappresentato la nazionale tedesca alle Olimpiadi del 1912 distinguendosi nel campionato locale con la maglia del Karlsruher.
Dotato di un sinistro magico, estremamente elegante e prolifico sotto porta, dopo il ritiro si era dedicato ad allenare i giovani del club renano, un compito che fu costretto ad abbandonare per via delle sue origini ebraiche.
Si rifiutò di abbandonare il Paese, convinto che la Croce di Ferro ricevuta durante la prima guerra mondiale dovesse pur significare qualcosa, ma anch’egli finì invece con l’essere deportato ad Auschwitz, dove la sua vita si spense. Tradito, come tanti altri, dalla nazione per cui aveva dato tutto a livello sportivo e umano.
Pionieri in fuga
Nello stesso campo di concentramento perse la vita Antoni Łyko, agile e sgusciante attaccante polacco del Wisla Cracovia, soprannominato “l’uomo senza nervi” per via della sua proverbiale freddezza davanti al portiere avversario, che lo rese uno dei migliori bomber del suo tempo: fu internato come dissidente politico e come tanti scomparve, cancellato dalla follia umana.
Un altro straordinario campione fu József Braun, centrocampista ungherese, tanto abile nei fondamentali al punto che si diceva che soltanto guardandolo si riusciva ad imparare a giocare a calcio. In patria, vestendo la maglia dell’MTK Hungária, conquistò la bellezza di 9 campionati pur dovendosi ritirare ad appena 24 anni, in seguito a una tremenda serie di infortuni.
Emigrato in America, dove aveva ripreso a giocare con la squadra ebraica del Brooklyn Hakoah, tornò in Europa per allenare e insegnare il calcio per davvero, ma dopo essere fuggito dall’Ungheria fu catturato in Slovacchia e quindi scomparve, anche se non è chiaro in quale tra i numerosi campi di sterminio esistenti all’epoca.
Compagno di squadra di Braun era Antal Vágó, roccioso difensore che fu ucciso a sangue freddo da alcuni soldati nazisti sulle rive del Danubio una volta che questi accertarono le sue origini ebree.
Lo Schindler di Catania e l’eroe serbo
Ungheresi erano anche Géza Kertész e István Tóth: si erano conosciuti sui campi da gioco, finendo poi ad allenare in Italia dove avevano portato molte idee all’avanguardia per l’epoca. Kertész allenò numerose squadre tra cui Roma e Lazio, lasciando il segno a Catania, Tóth invece guidò la Triestina e l’Inter: una volta scoppiata la guerra tornarono in Ungheria, allenarono una mezza stagione e intanto riuscirono a far fuggire un centinaio di ebrei ungheresi dal Ghetto di Budapest, prima di essere scoperti e fucilati pochi giorni prima della liberazione della città.
Difensore rinomato nella sua Jugoslavia era anche Milutin Ivković, che dopo il ritiro era diventato uno stimato medico, distinguendosi per uno spiccato spirito nazionalista che gli impediva di chinare il capo davanti alle angherie naziste. Fu fucilato per aver collaborato con i partigiani, ma prima di morire riuscì a divincolarsi e a prendere a calci il gerarca responsabile.
Un’altra vittima dell’Olocausto fu Evgen Betetto. A Lubiana, dov’era nato nel 1895, era stato uno dei fondatori dell’Hermes, la prima squadra slovena poi confluita nell’NK Ilirijia di cui era stato nominato vice-presidente. Attivissimo nello sport e animato da un amore immenso per la sua Slovenia, era stato pioniere anche nell’hockey e stimatissimo giornalista sportivo.
Con l’invasione nazista era diventato un partigiano, membro del Fronte di Liberazione, e per questo venne catturato e internato nel campo di concentramento di Dachau, dove morì il 12 febbraio del 1945, cinquant’anni da compiere.
All’inferno e ritorno
Qualcuno sopravvisse, vivendo all’inferno e riuscendo a ritornare. Gottfried Fuchs fu uno di questi: aveva capito come si stavano mettendo le cose nella sua Germania, quella per cui aveva segnato ben 10 reti in una sola gara, contro la Russia alle Olimpiadi del 1912. Ebreo, stella del Karlsruhe insieme a Hirsch, aveva provato inutilmente a convincere l’amico a seguirlo in Canada, dove visse il resto dei suoi giorni rifiutando il ritorno in patria anche dopo la morte di Hitler e la fine del Nazismo.
Un altro che riuscì a sopravvivere fu Mario Pagotto, difensore del Bologna di Weisz, finito addirittura a Cernauti, in Ucraina, e liberato assieme a dieci compagni dai tedeschi dopo essere riusciti a trionfare prima in un assurdo “mondiale dei lager” e poi contro una rappresentativa dell’Armata Rossa.
Morte dei traditori
Tornò in Italia, dove apprese della morte del terzino con cui si giocava il posto in squadra, Dino Fiorini, fascista convinto che forse ci aveva ripensato, ma che non fu risparmiato dalla rabbia dei partigiani, così come non furono risparmiati il mediano di origini uruguaiane Cecilio Pisano, scaraventato in circostanze poco chiare da una finestra di un grattacielo a Genova, il collaborazionista francese Alexandre Villaplane – capitano della Francia ai Mondiali del 1930 e in seguito cacciatore di ebrei – e l’elegante centrocampista croato Josip Šolc, messosi al servizio dei nazisti in Jugoslavia.
Insieme a Pagotto, e con le stesse modalità, tornò anche Ferdinando Valletti: mediano del Milan, finì a Gusen e riuscì a salvarsi grazie alla sua abilità nel calcio che gli permise di sostituire un giocatore della squadra del lager infortunato e quindi di essere spostato in cucina, da dove riuscì, con molti rischi, anche ad aiutare numerosi prigionieri a sopravvivere.
Come Pagotto, che si impegnò a conflitto concluso a girare per scuole e musei, raccontando la terribile esperienza nei lager: un ricordo doveroso, una memoria che è giusto rinnovare ogni anno affinché quello che è stato possa non succedere mai più.
Nota: ho volutamente evitato di citare la famosa “Partita della Morte”, che si dovrebbe essere svolta tra ufficiali nazisti e prigionieri ucraini, perché semplicemente pare che questa non sia mai avvenuta. Per ulteriori informazioni vi invito a leggere Edoardo Molinelli, che per Minuto Settantotto ha scritto “La partita della morte, o del perché l’uomo non ama la verità”.
BIBLIOGRAFIA:
- Marani, Matteo (2014) Dallo Scudetto ad Auschwitz – Storia di Arpad Weisz, allenatore ebreo, Imprimatur
- Mello, Niccolò (2015) Salvate il soldato pallone, Bradipolibri
- Quartarone, Roberto (2016) Due eroi in panchina, Edizioni Incontropiede